VITA DONATA E VITA CONSACRATA – Intervento di S.E. Donato Ogliari, Arciabate e Ordinario di Montecassino al II Seminario Teologico-Pastorale della Diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo

Intervento di S.E. Donato Ogliari, Arciabate e Ordinario di Montecassino al II Seminario Teologico-Pastorale  della Diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo

 VITA DONATA E VITA CONSACRATA

Ab. Donato Ogliari

Vorrei prendere le mosse dal titolo che mi è stato assegnato e che fa da traccia a questa mia riflessione: “Vita donata e vita consacrata”. Si tratta di due espressioni fondamentalmente paritetiche, che sono intimamente legate tra loro ed interagiscono in profondità. La vita consacrata, infatti, è una vita donata, e una vita donata è il terreno fertile sul quale fiorisce una vita consacrata.

  1. La vita consacrata come DONO

Innanzitutto va precisato che, su un piano oggettivo, la vita consacrata è un dono di Dio, in quanto è Lui stesso che la ispira e la elargisce alla Chiesa e all’umanità, affinché, attraverso quei fratelli e sorelle che sono chiamati a vivere radicalmente la sequela del Figlio suo Gesù (sequela Christi), sia loro offerta la possibilità di gettare uno sguardo più intenso e profondo sul mistero del suo Regno.

Così scrive san Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica post-sinodale Vita consecrata:

«La vita consacrata, profondamente radicata negli esempi e negli insegnamenti di Cristo Signore, è un dono di Dio Padre alla sua Chiesa per mezzo dello Spirito. Con la professione dei consigli evangelici i tratti caratteristici di Gesù — vergine, povero ed obbediente — acquistano una tipica e permanente «visibilità» in mezzo al mondo, e lo sguardo dei fedeli è richiamato verso quel mistero del Regno di Dio che già opera nella storia, ma attende la sua piena attuazione nei cieli»[1].

E ancora:

«La vita consacrata si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché «esprime l’intima natura della vocazione cristiana» e la tensione di tutta la Chiesa-Sposa verso l’unione con l’unico Sposo»[2].

Col Concilio Vaticano II possiamo affermare in maniera ancora più incisiva che la vita consacrata, pur avendo «le sue profonde radici nella consacrazione battesimale», ne è la «espressione più perfetta»[3].

Da parte loro, e stavolta su un piano soggettivo, i consacrati sono poi un dono per i fratelli. E lo sono a cominciare dalla loro esistenza che radicalizza, per così dire, non solo il significato della vita cristiana, ma anche la grammatica stessa della vita. Infatti, una vita che non si fa dono non sarebbe una vita degna di questo nome. Già il filosofo e scrittore latino Seneca affermava: «Possiedo ciò che ho donato»[4].

Un’esistenza ripiegata su di sé ed esclusivamente autoreferenziale è una negazione e una contraffazione della vita stessa.

Quest’ultima è autentica quando si dispiega alla luce della normalità del dono di sé e nell’ottica della gratuità che caratterizza il dono stesso[5]. Quel che non è donato è come se non esistesse. Quindi, una vita non donata è come se fosse già morta.

Ora ci chiediamo: come si articola all’interno della compagine ecclesiale una vita consacrata che da “dono ricevuto” si fa “dono offerto”? Da quali presupposti essa prende le mosse per rendere efficace la chiamata a seguire radicalmente Cristo e il suo Vangelo?

  1. LA DIMENSIONE TEOLOGALE, CARISMATICA E PROFETICA

    DELLA VITA CONSACRATA

  1. Dimensione teologale

Va innanzitutto chiarito che il termine “teologale” ha un significato diverso da quello del termine “teologico”, a cui siamo più avvezzi. Mentre, infatti, quest’ultimo rimanda alla riflessione che l’uomo fa su Dio e su ciò che attiene al suo mondo, il termine “teologale” indica il venire incontro di Dio all’uomo

È, infatti, il venire incontro all’uomo (quaerere hominem) da parte di Dio che rende possibile all’uomo il cercarlo a sua volta (quaerere Deum) e il consegnarsi a Lui. E ciò avviene attraverso l’accoglienza e la sequela del Figlio suo Gesù (quaerere Jesum), colui che manifesta il volto del Padre[6], colui che è al centro della vita del battezzato.

L’aspetto “teologale” allude, dunque, alla possibilità per il consacrato di assumere un’esistenza “cristiforme” portando la propria consacrazione battesimale al livello di una radicale sequela di Cristo, di uno speciale rapporto con lui mediante l’assunzione dei consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza)[7].

In questo senso la vita consacrata ha davvero qualcosa di rilevante da dire, perché trova il suo fondamento, il suo orientamento e la sua ragion d’essere non tanto o non solo negli universali teologici, ma soprattutto nel singolare teologale[8], ossia in un’esperienza viva che tocca il singolo e la comunità alla quale appartiene. È, infatti, a questo livello che si pone la prima e fondamentale testimonianza che i consacrati sono chiamati a dare alla Chiesa e al mondo.

Su un piano più propriamente teologico, la conseguenza di un approccio teologale della vita consacrata è il recupero “evangelico” della teologia della medesima, recupero che ha, appunto, determinato il passaggio da una teologia della perfezione a una teologia che pone al centro l’esperienza di Dio e della sua unicità, alla scuola di Cristo e del suo Vangelo. Mentre secondo il modello della teologia della perfezione l’ideale del consacrato consisteva nel raggiungere uno “stato di perfezione” attraverso la dimensione morale e disciplinare, ossia l’osservanza regolare e le pratiche ascetiche, ora il consacrato non si percepisce più solamente sulla base dell’ascesi e dell’osservanza che è in grado di compiere, e neppure per una vita moralmente ineccepibile – “perfetta” appunto – ma per la sua capacità di trasmettere la luce di Dio, di essere “astri nel mondo” (Fil 2,15-16) grazie ad una vita intrisa di fede, di speranza e di carità, le tre virtù teologali, appunto, vissute in compagnia di Gesù.

Soprattutto, il recupero del Vangelo nella dimensione teologale, permette al consacrato di guardare al futuro con una fede fiduciosa, una fede grande che illumina la sua speranza e sostiene la sua carità, una fede che non si affida alle dinamiche di questo mondo, ma lascia a Dio l’ultima parola.

A simbolo di questo sguardo fiducioso, che non si lascia irretire dai calcoli umani, può essere assurta l’attitudine del giovane Davide di fronte alla sfida del gigante Golia. Nella valle del Terebinto, dove l’esercito degli Israeliti era schierato in battaglia contro i Filistei, il re Saul era rimasto prigioniero dei calcoli umani. Era incapace di cambiare prospettiva ed entrare con fiducia nello sguardo di Dio. Di fronte alla sfida lanciata dal gigante Golia, si lascia sopraffare dalla paura, e con lui tutti gli israeliti: «Saul e tutto Israele (…) rimasero sconvolti ed ebbero grande paura» (1Sam 17,11). Erano prigionieri di un presente asfittico. Non riuscivano ad immaginare qualcosa di diverso dell’inevitabile sconfitta ed erano soverchiati dalla tristezza e dalla desolazione. Davide, per contro, si affidò al futuro di Dio. Dopo essersi liberato dell’armatura con cui Saul lo aveva rivestito (cf. 1Sam 17,38-39), seppe immaginare qualcosa di diverso. E così, gli sarebbe bastato un solo ciottolo di torrente per abbattere colui che sembrava imbattibile (cf. 1Sam 17,40ss).

Davide è dunque il simbolo di una fede che non si abbatte, una fede che sfodera una connaturale fiducia e speranza di fronte alle sfide che le stanno davanti, anche quando sembrano presentarsi come dei “giganti” imbattibili.

  1. Dimensione carismatica e profetica

Indubbiamente, all’interno della vita consacrata vi è stata, in questi ultimi decenni, una riscoperta e una rivalorizzazione dell’ispirazione originaria e della libertà evangelica che sottostava all’intuizione dei fondatori e delle fondatrici. Ciò è stato reso necessario dal fatto che – come ci insegna la storia – il rapporto tra dimensione carismatica e dimensione istituzionale, con l’andar del tempo, tende a sbilanciarsi in favore di quest’ultima e in funzione dell’organizzazione delle attività, con tutto quell’apparato di leggi, regolamenti e osservanze che la caratterizzano. Volenti o no, queste sovrastrutture religiose hanno finito con l’imbrigliare la freschezza del carisma che – per sua natura – è invece frutto della libertà e dell’imprevedibilità dello Spirito Santo.

A un recupero attento – filologico, certo, ma non statico – della dimensione carismatica originaria, si affianca la dimensione profetica, ossia la capacità di leggere il presente “con gli occhi di Dio”, per discernervi i “segni dei tempi”, che indicano la crescita del suo Regno nel mondo, dai segni dell’anti–Regno con i quali il Maligno, padre della menzogna, cerca di distogliere l’uomo dalla ricerca di Dio[9].

Leggere la storia con gli occhi di Dio significa innanzitutto sforzarsi di rifuggire quell’insieme di realtà o sollecitazioni che – nel senso giovanneo del termine – si profilano come “mondane”, ossia sostanzialmente alimentate dalla cupidigia. E il modo migliore con cui contrastare questa mondanità è proprio quello indicatoci da Gesù: impegnarsi quotidianamente ad essere nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 15,19), senza cioè venir meno alle esigenze della sequela Christi e del suo Vangelo.

Di questo impegno – dal quale dipende la credibilità della vita consacrata – è parte integrante il riconoscimento della propria creaturalità e il sentirsi solidali con l’umanità. Infatti, solidarizzando con i suoi fratelli e sorelle in umanità, il consacrato può loro indicare la comune vocazione a realizzarsi in Dio. Un realizzarsi in Dio che diventa anche annuncio e allo stesso tempo anticipazione della condizione escatologica dei credenti, anticipazione cioè dei «cieli nuovi e terra nuova» (Is 65,17) che ci attendono nel Regno di Dio, e soprattutto dell’uomo nuovo, destinato alla comunione con Dio in virtù della redenzione operata da Cristo Gesù.

Tocca dunque particolarmente ai consacrati – “sentinelle nella notte” (cf. Is 62) – annunciare con la loro vita la possibilità l’alba di un mondo nuovo, abitato dalla speranza in un Dio che si prende cura dell’uomo.

  1. IL “BONUM FRATERNITATIS

A tal proposito ritengo che uno dei compiti più urgenti e profetici che le comunità dei consacrati sono chiamati a svolgere all’interno della Chiesa e in una società sempre più individualistica come la nostra, sia quello di presentarsi come luoghi in cui si narra la possibilità della vita comune, del bonum fraternitatis, con tutto quello che tale espressione comporta. Vorrei perciò concentrare l’attenzione su alcuni aspetti che descrivono questo “compito” il cui esito ha un’indubbia ricaduta sulle attività esterne (dal campo spirituale, pastorale ed educativo a quello assistenziale e caritativo) che caratterizzano le specifiche forme di vita consacrata nella Chiesa.

«Nel nostro tempo (…) la vita consacrata è chiamata ad essere segno della possibilità di rapporti umani accoglienti, trasparenti, sinceri. La Chiesa, nella debolezza e nella solitudine alienante e autoreferenziale dell’umano, conta su fraternità ricche “di gioia e di Spirito Santo” (At 13,52)[10]. “Specialis caritatis schola”[11], la vita consacrata, nelle sue molteplici forme di fraternità, è plasmata dallo Spirito Santo, perché dove c’è la comunità, là c’è lo Spirito di Dio, là c’è la comunità e ogni grazia”[12]»[13].

Credo fermamente che oggi l’autenticità della vita consacrata si giochi soprattutto – per non dire in maniera decisiva – sulla qualità della comunione fraterna vissuta all’interno delle comunità, sul desiderio e l’impegno diuturno di queste ultime nel qualificarsi come “case e scuole di comunione”[14].

All’inizio del terzo millennio, indicando alla Chiesa la grande sfida che l’attendeva e nella quale era chiamata a mostrarsi fedele al disegno di Dio e a rispondere alle attese profonde del mondo, Giovanni Paolo II così si esprimeva:

«Occorre promuovere una spiritualità della comunione (…). Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi, e la cui luce va colta anche sul volto dei fratelli che ci stanno accanto. Spiritualità della comunione significa inoltre capacità di sentire il fratello di fede nell’unità profonda del Corpo mistico, dunque, come «uno che mi appartiene», per saper condividere le sue gioie e le sue sofferenze, per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni, per offrirgli una vera e profonda amicizia. Spiritualità della comunione è pure capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un «dono per me», oltre che per il fratello che lo ha direttamente ricevuto. Spiritualità della comunione è infine saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie. Non ci facciamo illusioni: senza questo cammino spirituale, a ben poco servirebbero gli strumenti esteriori della comunione. Diventerebbero apparati senz’anima, maschere di comunione più che sue vie di espressione e di crescita»[15].

La spiritualità di comunione indicata da Giovanni Paolo II interpella in profondità la vita consacrata. Per questa ragione, vorrei ora declinare in maniera succinta come tale spiritualità possa concretamente configurarsi: una comunione basata su rapporti che alla formalità sappiano preferire la forza luminosa della fraternità e della carità; una comunione dove prevalga la reciproca stima, la comprensione, la capacità di perdonarsi e riconciliarsi; una comunione, insomma, nella quale si ricerchi costantemente e da parte di tutti ciò che unisce, e nella quale ci si sforzi, alla luce di rapporti sinceri e il più possibile semplificati, di comporre in unità le diversità di cui i singoli sono inevitabilmente portatori. È «“la mistica” di vivere insieme», sulla quale papa Francesco ha posto fortemente l’accento[16].

3.1. Dall’ “io” al “noi”

Nelle comunità religiose non ci si può accontentare – per usare una nota e illuminante distinzione di D. Bonhoeffer – di una comunione psichica, ma si deve ricercare senza sosta una comunione pneumatica spirituale[17] che sia testimonianza luminosa per la Chiesa e per il mondo.

La “comunione psichica”, infatti, è il prodotto dei desideri umani in quanto è sorretta da motivazioni e convergenze di natura umana. Il suo fondamento è la brama istintiva, che rende l’uomo schiavo dei “pensieri cattivi” che escono dal suo cuore (cf. Mc 7,21s). Contrapponendosi all’azione dello Spirito, egli gira attorno a se stesso, a vuoto, finendo col diventare schiavo dell’esaltazione eccessiva della propria personalità e del soddisfacimento delle proprie voglie. Il regno della comunione psichica, infatti, è quello tenebroso dell’egocentrismo e della superbia, che inaridiscono lo spirito generando un’inestinguibile insoddisfazione e un ingiustificabile assoggettamento del fratello ai propri punti di vista, giudizi, desideri, interessi e bisogni.

La “comunione spirituale”, invece, unisce quanti riconoscono che Cristo è il centro propulsore della comunità. Il fondamento di tale comunione è la verità, e la sua essenza è la luce: «Dio è luce (…) Se camminiamo nella luce, com’Egli è nella luce, abbiamo comunione l’uno con l’altro» (1Gv 1,5). Nella comunione spirituale regna incontrastata la Parola di Dio, e il cuore è costantemente aperto alle sollecitazioni dello Spirito Santo. In essa vige l’agape, il chiaro amore del servizio fraterno, umile, sincero, disinteressato. Solo questa comunione spirituale rende possibile il passaggio dall’ “io” al “noi”, e solo alla sua luce è possibile armonizzare i propri progetti all’interno di un percorso comunitario, reso fecondo dal dono disinteressato e generoso dei suoi membri.

3.2. Interdipendenza e “convivialità delle differenze”

La vita comunitaria, improntata al mistero trinitario di comunione e di amore, è la palestra nella quale è offerta la possibilità di esercitarsi nell’amore vicendevole e di sperimentare sia la stretta interdipendenza dei membri di una comunità sia la “convivialità delle differenze”[18].

  1. Interdipendenza

«Nella vita comunitaria l’energia dello Spirito che è in uno passa contemporaneamente a tutti. Qui non solo si fruisce del proprio dono, ma lo si moltiplica nel farne parte ad altri e si gode del frutto del dono altrui come del proprio” (San Basilio)»[19].

Il noto monaco-scrittore Thomas Merton intitolò un suo famoso libro con le parole di un poeta elisabettiano, John Donne: «No man is an island – Nessun uomo è un’isola»![20] Queste parole dicono l’esperienza di interdipendenza che tutti noi sperimentiamo a vari livelli, incluso quello spirituale, e che ci fa sentire strettamente collegati gli uni agli altri.

«Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana»[21].

Un soldato che, durante la II Guerra mondiale, fu fatto prigioniero e internato in un campo di concentramento giapponese, ha scritto questi versi significativi:

«Nessuno sapeva dirmi dove fosse la mia anima.

Ho cercato Dio, ma Dio mi sfuggiva.

Ho cercato il mio fratello, e ho trovato tutti e tre:

la mia anima, il mio Dio e tutta l’umanità»[22].

Ogni fratello e ogni sorella che ci sta accanto ci offre l’opportunità di condividere con lui o con lei la ricerca del senso della vita di quaggiù e l’anelito insopprimibile di Dio. Di fatto, gli altri sono i primi che ci portano a Dio, poiché è soprattutto attraverso di essi che Dio si comunica a noi. Come ci ricorda papa Francesco: «Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio»[23].

Il messaggio è chiaro: non pretendiamo di elevare lo sguardo a Dio se non sappiamo guardare negli occhi chi ci sta accanto, soprattutto chi condivide la stessa vita di comunità, riconoscendo in lui o in lei la stessa possibilità di accedere a Dio. Non solo, la vita comunitaria ci fa incontrare il volto concreto del fratello anche per proteggerci da una soddisfazione verbale e astratta, che contempla l’ideale senza sforzarsi di trasformarlo in realtà.

  1. “Convivialità delle differenze”

Ne consegue che i consacrati sono chiamati «a riconoscersi come fraternità aperta alla complementarietà dell’incontro nella convivialità delle differenze»[24], resa possibile – oltre che dalla grazia di Dio – anche dallo strumento e dallo stile del dialogo, vissuto nell’amicizia e nel servizio reciproco. È solo nell’amore e nella stima reciproca – illuminati dalla grazia – che si riesce a riconoscere e ad accogliere le diversità che esistono anche all’interno di una comunità.

Abbiamo una chiara illustrazione di ciò nell’apologo paolino del corpo (1Cor 12). Dopo aver stigmatizzato gli “ismi” dei personalismi, Paolo afferma chiaramente che la comunità cristiana ha il suo radicamento qualificante in Cristo di cui è il corpo. Tale corpo, però, pur essendo uno, è composto di molte membra. Ed è proprio su questa pluralità nell’unità che Paolo pone l’accento. Si tratta, infatti, di una pluralità diversificata; non solo cioè una molteplicità di membra uguali, ma un insieme di tante membra diverse, ciascuna delle quali rappresenta un’alterità irripetibile che esclude da subito sia l’unicità che l’uniformità. Infine – continua Paolo – occorre riconoscere che le diverse membra del corpo non sono tenute insieme da una mera coesistenza, come se si trattasse di una mera giustapposizione dove ciascuno mantiene una sua impermeabile autonomia. Al contrario, esse sono unite da un reciproco bisogno, da una legge fondamentale di mutua sollecitudine che fa guardare oltre gli stereotipi o le proprie attese, e che sa assumere e trasformare positivamente la fatica dell’incontro con l’altro.

3.3. Portare i pesi gli uni degli altri

La condivisione e la solidarietà, come espressione concreta del «cor unum et anima una» (cf. At 4,32), sono un punto di forza della consacrazione. San Paolo usa al riguardo una bellissima immagine: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6,2). Per spiegare questo “portare i pesi gli uni degli altri”, sant’Agostino ricorre a una suggestiva similitudine[25]:

«Durante questa vita, mentre cioè siamo in via, portiamo a vicenda i nostri pesi per giungere a quella vita priva ogni peso. Come hanno scritto alcuni studiosi di tali materie riguardo ai cervi: quando questi animali guadano un corso d’acqua verso un’isola alla ricerca di pascoli, si allineano in modo da porre gli uni sugli altri il peso delle loro teste, appesantite dalle corna, cosicché quello che segue, allungando il collo, posa la testa sul precedente. E poiché è necessario che uno preceda gli altri, senza avere nessuno davanti a sé su cui poggiare la testa, si dice che facciano a turno: chi precede, affaticato dal peso della testa, retrocede all’ultimo posto e gli succede quello di cui sosteneva la testa, quando esso guidava il branco. E così, portando a vicenda i loro pesi, passano il guado fino a raggiungere la terra ferma»[26].

Portare i pesi gli uni degli altri in comunità significa dunque farsi carico – condividendole – delle gioie e delle pene dei fratelli. Una sollecitudine che, contrariamente all’amor curvus, accartocciato su se stesso, è sostenuta da un amore gratuito, puro e ardente, e sa vedere e prevenire i bisogni dell’altro anche in assenza di parole.

Non si dimentichi, infine, la motivazione teologica che soggiace al diuturno impegno di portare i pesi gli uni degli altri. Tale motivazione si trova nell’incarnazione del figlio di Dio. Essa rappresenta il fondamento cristologico di ogni forma di condivisione e solidarietà. È nel Cristo incarnato, infatti, che noi, divenendo sue membra inseparabili, compaginati nel suo Corpo che è la Chiesa, siamo divenuti altrettanto inseparabili dai nostri fratelli e sorelle.

3.4. Autenticità e semplicità

Di fronte al culto dell’effimero, dell’immagine e dell’apparenza, le comunità di consacrati dovrebbero essere luoghi nei quali si coltiva il primato dell’essere e dell’essenzialità, e con esso il gusto delle relazioni genuine, non affettate o forzate, luoghi in cui si ricerca ciò che è autentico, buono e bello nel solco della quotidianità. A questo dev’essere improntato il pensare, il parlare e l’agire dei consacrati.

«L’attuale debolezza della vita consacrata deriva anche dall’aver perso la gioia delle “piccole cose della vita”[27]. Nella via della conversione i consacrati e le consacrate potrebbero scoprire che la prima chiamata (…) è la chiamata alla gioia come accoglienza del piccolo e ricerca del bene»[28].

  1. BELLI NEL CRISTO-BELLEZZA

Sostituendo il primo termine della famosa espressione del sociologo canadese Marshall Mc Luhan, “il medium è il messaggio”, possiamo affermare senza timore che “la bellezza è il messaggio”[29], intendendo per bellezza tutto quello che è rappresentato dal Cristo, il Salvatore del mondo, e dal suo Vangelo.

Infatti, per il cristiano, e in maniera più radicale per il consacrato, non vi è altra vera bellezza che quella racchiusa nella persona di Gesù,  “il buon/bel pastore” (Gv 10,11), il «più bello tra i figli dell’uomo» (Sal 45 [44], 3), l’Incomparabile. Egli è la Bellezza che salverà il mondo[30].

Così scrive sant’Agostino a riguardo di Gesù:

«È bello dunque in cielo, bello in terra; bello nel seno, bello nelle braccia dei genitori: bello nei miracoli, bello nei supplizi; bello nell’invitare alla vita, bello nel non curarsi della morte, bello nell’abbandonare la vita e bello nel riprenderla; bello nella croce, bello nel sepolcro, bello nel cielo»[31].

Ponendosi alla scuola di Gesù, il Bello per antonomasia, il consacrato acconsente a che i tratti della bellezza di Cristo – i.e. la vita divina – si imprimano in lui e trasformino la sua vita nella vita vera e buona del Vangelo, ossia in una vita che diventi trasparenza dell’Amore di Dio.

Contemplare la bellezza del Cristo significa, in fondo, lasciarsi raggiungere e toccare dal suo Amore, un amore totale, non parcellizzato, un amore che ci avvolge e ci riveste come se fosse una «camicia di fuoco che forza umana non può levare» e grazie alla quale «noi viviamo, noi respiriamo soltanto se bruciamo e bruciamo»[32].

[1] Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica post-sinodale Vita consecrata (=Vita consecrata), n. 1.

[2] Id., Vita consecrata, n. 3.

[3] Concilio Vaticano II, Perfectae caritatis, n. 5.

[4] «Hoc habeo quodcumque dedi» (Seneca, De beneficiis VI,III,1).

[5] «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8b).

[6] «Dio nessuno l’ha mai visto; il Figlio Unigenito che è nel seno del Padre, Lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

[7] Cf. Giovanni Paolo II, Vita consecrata, n. 14. «Il fondamento evangelico della vita consacrata – afferma Giovanni Paolo II – va cercato nel rapporto speciale che Gesù, nella sua esistenza terrena, stabilì con alcuni dei suoi discepoli, invitandoli non solo ad accogliere il Regno di Dio nella propria vita, ma a porre la propria esistenza a servizio di questa causa, lasciando tutto e imitando da vicino la sua forma di vita. Una tale esistenza “cristiforme”, proposta a tanti battezzati lungo la storia, è possibile solo sulla base di una speciale vocazione e in forza di un peculiare dono dello Spirito» (Loc. cit.).

[8] G. Bonaccorso, Le sfide della modernità e della post-modernitàcit., p. 27.

[9] «Le persone consacrate (…) testimoniano, contro la tentazione dell’egocentrismo e della sensualità, i caratteri dell’autentica ricerca di Dio ed ammoniscono a non confonderla con la sottile ricerca di se stessi o con la fuga nella gnosi» (Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, n. 103).

[10] Cf. Giovanni Paolo II, Vita consecrata, n. 45.

[11] Guglielmo di Saint-Thierry, Sulla natura e la dignità dell’amore 9,26.

[12] Ireneo di Lione, Contro le eresie III,24,I.

[13] CIVCSVA, Scrutate, cit., p. 73.

[14] Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica Novo millennio ineunte, n. 43. L’espressione, in quanto tale, è applicata alla Chiesa.

[15] Loc. cit.

[16] Francesco, Esortazione Apostolica Evangelii gaudium (=Evangelii gaudium), n. 87.

[17] Cf. D. Bonhoeffer, Vita comune, Brescia 2003 (prima Edizione paperback della Edizione critica in lingua tedesca), pp. 25ss.

[18] Espressione di Mons. Tonino Bello. Papa Francesco parla di «comunione nelle differenze» (Evangelii gaudium, n. 228).

[19] Cit. in Giovanni Paolo II, Vita consecrata n. 42.

[20] J. Donne, Sermone o Meditazione XVII.

[21] Francesco, Evangelii gaudium, n. 113.

[22] Cit. in T. Radcliffe, Il punto focale del cristianesimo, Milano 2008, p. 167.

[23] Francesco, Evangelii gaudium, n. 272. A sua volta Benedetto XVI scriveva: «Chiudere gli occhi di fronte al prossimo rende ciechi anche di fronte a Dio» (Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus caritas est, n. 16).

[24] CIVCSVA, Scrutate, cit., p. 75.

[25] Tratta da Plinio il Vecchio, Historia naturalis VIII, 279-282.

[26] Agostino, Ottantatre questioni diverse 71,1.

[27] Francesco, Evangelii gaudium, n. 4.

[28] CIVCSVA, Scrutate, cit., pp. 88-89.

[29] “Il mezzo è il messaggio”, è considerato lo slogan per il quale McLuhan è soprattutto conosciuto. Esso sta ad indicare che il vero messaggio che ogni medium trasmette è costituito dalla natura del medium stesso.

 

Chatta con noi!!!
Ciao,
Possiamo aiutarti?